la parola della domenica
Anno
liturgico A |
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Dt
8,2-3.14-16 Il libro del Deuteronomio -libro affascinante che evoca la marcia faticosa nel deserto e il dono inatteso di un'acqua da roccia durissima, di una manna sconosciuta ai padri- e la parola di Gesù: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo", ci salvano da un rischio che non è teorico: quello di ridurre la festa del Corpus Domini all'adorazione di un oggetto: una cosa da guardare estatici e immobili, quasi un reperto archeologico. A
volte ripenso a quella parola, piccola parola, con cui gli Ebrei hanno
chiamato quel cibo inatteso dal cielo: Manna, manhu, che significa: che
cos'è? E
penso anche che la stessa domanda dovrebbe essere iscritta per sempre
nell'Eucaristia. E ogni volta che la prendiamo nelle mani e ne mangiamo,
chiederci: che cos'è? Non è primariamente -voi mi capite- non è primariamente un fatto di tabernacoli, tabernacoli della chiesa. O sì, se tabernacolo significasse tenda, la tenda della sua presenza, che si alza e si sposta più in là, quando si parte -e ogni giorno si parte-. Allora sì: Eucarestia nella tenda, nel tabernacolo della vita. Dunque l'Eucarestia è legata, come la manna, alla storia della nostra vita, storia di traversate; si esce ma non si entra subito. Si esce dall'Egitto, ma non è subito Terra Promessa. E che cosa ti ricorda la manna? Che cosa ti ricorda l'Eucarestia? Ti ricorda che se vivi, se non sei morto di fame lungo i deserti della vita, se non ti sei fatto tu deserto, se non sei diventato tu terra inospitale, è perché è sceso qualcosa dall'alto. È come riconoscere, confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo vivi è per un Altro. È come riconoscere e confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo sopravvissuti è per questo dono inatteso, che non è semplicemente un'ostia bianca, ma la presenza di Dio, di cui questa piccola ostia bianca è segno e tramite. Voi mi capite: questo riconoscimento della nostra pochezza, questa confessione di umiltà: viviamo, sopravviviamo per un Altro. E superiamo così un fraintendimento -ancora molto diffuso- che oggi scandalizza alcuni cristiani e li fa critici: critici nei confronti della lunga fila di coloro che la domenica si accostano alla comunione. E dicono: Ma che? Si sentono tutti santi? Tutti senza peccato?, tutti degni? Ma l'Eucarestia non è per chi è degno: "Signore, non sono degno": diciamo. L'Eucarestia è una confessione di debolezza e di umiltà. Non è sbandieramento di una virtù, è riconoscimento della nostra pochezza. Qualcuno dall'esterno potrebbe prenderlo come un gesto magico: ma come, tu, uomo moderno, uomo evoluto, uomo disincantato, vai a prendere un piccolo pezzo di pane bianco? Sì, sei uomo moderno, evoluto, disincantato e riconosci che vivi in forza di un dono che viene dall'alto. Faccio un passo avanti: ma anche questa piccolezza insegna: una presenza, quella di Dio, legata a cose quotidiane, il pane, il vino, la tavola. Ci
ricorda, l'Eucarestia, che Dio non appare nei segni di una gloria sfolgorante,
ma nella semplicità e nella povertà dell'incarnazione. È
come se Dio, ogni volta che prendiamo l'Eucarestia, venisse a riabilitare
le cose quotidiane, a dare senso alle cose quotidiane. In questo pane, piccolo pane, splende, sì, splende, ogni volta che lo prendiamo e ne mangiamo, un segno: il segno di un Dio che si dona per la vita del mondo. Un Dio che fa vivere e non distrugge. E anche tu, nella vita quotidiana, sii tra coloro che fanno vivere, danno segni positivi, non tra gente che distrugge. Un Dio che si offre liberamente "offrendosi liberamente" -è scritto-: liberamente, per la gioia di farlo. E se imparassimo anche noi da questo pane la gioia di fare il bene, ogni giorno, unicamente per questo, per la bellezza di farlo? |
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