la parola della domenica

 

Anno liturgico B
omelia di don Angelo nella 4ª Domenica di Pasqua B
secondo il rito romano



 

 

At 4,8-12
Sal 117,8-9.21-23.26.28-29
1 Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

Faremmo un torto alla Bibbia, ai testi che abbiamo ascoltato, se oggi accomodassimo affrettatamente l'immagine del pastore buono alla figura dei preti, dei consacrati.

C'è una rivendicazione d'assolutezza da parte di Dio, da parte di Gesù su questa immagine del pastore, quasi la rivendicazione di un marchio che appartiene in pienezza solo a lui, quasi un invito a non usare il nome di Dio invano, cioè a sproposito, non usare il nome del pastore a sproposito.

"Io" -dice Gesù - "io sono il buon pastore", il pastore "bello" (kalo,j) secondo il testo greco, la bellezza del pastore sta in me, dice Gesù.
Attenzione dunque a non sostituirci.

E l'apostolo Pietro è esplicito, nel brano degli atti che oggi abbiamo ascoltato. Notate la forza: "In nessun altro c'è salvezza. Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati".

La forza -diceva Pietro - che ha fatto rialzare questo storpio viene da lui, viene da quella pietra che voi avete scartato, voi costruttori, voi sapientoni.
E Gesù risorto -notate - non era già più sulle nostre strade, come oggi non è più sulle nostre strade, eppure il pastore buono è lui, e c'è una forza, ancora oggi, che fa rialzare, e questa forza viene da lui.

Ebbene quest'anno ripercorrendo la metafora del pastore mi veniva spontaneo radunare -anche se l'operazione, lo ammetto, è riduttiva - radunare intorno a due parole le caratteristiche del pastore, due parole che sembrano in contraddizione, ma non lo sono: la fortezza e la tenerezza.

Persiste ancora -dobbiamo ammetterlo - una certa iconografia un po' dolciastra del Buon pastore, come se il suo fosse un andare quasi passeggiando molle con la pecora sulle spalle.
La vita di Gesù, voi lo sapete, non è stata una passeggiata, ha affrontato il lupo, il lupo che rapisce e disperde le pecore, ha affrontato i mercenari, quelli che si presentano sì con il titolo di pastori, ma ai quali interessa solo il denaro. Gesù li ha affrontati per difendere le pecore e ha accettato per difenderle anche la morte.

Quando vide venire il lupo non abbandonò il gregge, non fuggì, lo difese fino a morire: se questa non è fortezza!

E insieme la tenerezza del pastore che conosce ed è conosciuto. Gesù consolava e fasciava le ferite della vita e alleggeriva i pesi quando gli altri aggiungevano peso a peso, e rallentava il passo perché nessuno del gregge rimanesse indietro, neppure i più deboli.

Fortezza e tenerezza, le due qualità che ancora oggi Gesù usa con noi; perché fortezza e tenerezza fanno il pastore.

E dobbiamo ricordarlo, anzi dovete ricordarlo a noi consacrati, che fortezza e tenerezza fanno il vero pastore.
Ma forse dobbiamo ricordarlo ad ogni autorità: nell'antichità, non solo giudaica, il pastore era il re.

Se manca fortezza, se manca tenerezza, c'è usurpamento del titolo di pastore.
E dunque la fortezza, la fortezza nello smascherare i mercenari, la fortezza nell'intravedere anche da lontano le aggressioni al patrimonio di valori dell'umanità, la fortezza nello strappare alle fauci del lupo le pecore; fauci nere, buco nero che oggi si chiama anche angoscia esistenziale, depressione, disfattismo, buco nero che ti risucchia e non ti lascia più vivere.

Fortezza e insieme tenerezza. Ce n'è sempre più bisogno in un mondo abbastanza spietato come il nostro.
Se non vi annoio, io vorrei leggervi una pagina, per me splendida, sulla divina tenerezza.
La pagina è in un libro di Maurice Bellet, "Il corpo alla prova".

"La divina tenerezza è pace, pace misericordiosa, acquietamento.

È una mano dolce e materna che conosce, conforta, ripara senza trauma, rimette nel posto giusto.
E' uno sguardo simile a quello di una madre sul figlio che nasce.
È orecchio attento e discreto che nulla spaventa, che non giudica, che sceglie sempre il buon sentiero umano dove si potrà vivere perfino l'invivibile.
Essa è salda come la buona terra, su cui tutto riposa. Ci si può appoggiare su di essa, pesarci sopra senza timore.

È dunque luogo sicuro, dove io smetto di fare paura a me stesso.
Per questo è cosa sciocca ritenerla debolezza. Essa è la forza, quella vera, che fa venire al mondo e crescere.

L'altra forza, quella che distrugge e uccide, non è che orgia della debolezza.
La divina tenerezza tutto salva, vuol salvare tutto. E non dispera di nessuno, crede che vi sia sempre una strada. Senza sosta, continuo infaticabile a partorire, curare, nutrire, rallegrare e confortare".

 

 


 
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