la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella 29ª Domenica del Tempo Ordinario
secondo il rito romano



 

 

Es 17,8-13a
Sal 120
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8

A che cosa mira questa parabola è già detto esplicitamente nella nota che la introduce: "diceva loro una parabola per mostrare che essi dovevano pregare sempre e non stancarsi". Pregare sempre in ogni momento, in ogni situazione: sono i due significati della parola greca "pa,ntote" (pântote). E non stancarsi. Dunque il pericolo che qui Gesù vuole sottolineare è quello della stanchezza. Di quale stanchezza si parla? Della stanchezza del "grido che non ha risposta".

E' la stanchezza che avrebbe potuto prendere la vedova del Vangelo che andava dal giudice e gli diceva "Fammi giustizia" e il giudice non ascoltava, non faceva giustizia. La vedova della parabola - voi lo sapete -fa parte di quella categoria biblica che identifica coloro che sono senza difesa -la vedova, l'orfano, il povero-: non hanno un marito che le difende, non hanno un padre che li difende, non hanno i soldi che li difendono.Dovrebbe difenderli la legge, dovrebbe difenderli il giudice. Lui dovrebbe ascoltare il grido dei senza difesa, lui dovrebbe ascoltare la richiesta di giustizia. Se il giudice non interviene, allora a ingiustizia si aggiunge ingiustizia e già è grave che a un povero, a un orfano, a una vedova, a un debole sia stato fatto ingiustizia. Già è grave.

Ma se il giudice non interviene allora diventa causa del perpetuarsi di una situazione di ingiustizia: è come se il giudice non la interrompesse. Mi sembra di capire che Gesù narrandoci del giudice ingiusto, che alla fine però -dopo aver temporeggiato- interviene, voglia sostenere la nostra speranza e la nostra resistenza a pregare. Se interviene un giudice ingiusto, pressato dall'intervento della vedova, volete che non intervenga Dio, pressato dalla nostra preghiera? Questo sembra essere il messaggio centrale della parabola.

Io mi chiedo però se, sotto l'immagine, non possa essere sotteso anche un altro messaggio forse più inquietante: quello -se così si può dire- del ritardo di Dio. Perché devi insistere nella preghiera e non stancarti? Perché l'impressione è che Dio temporeggi, come quel giudice, l'impressione è che sia in ritardo, in ritardo in due sensi. In ritardo, perché l'ingiustizia non è stata fermata al suo nascere. Il tempio distrutto, le sue macerie, quel muro sbrecciato sembrano accusare il ritardo di Dio. E di conseguenza giustificare il grido di chi ha subito ingiustizia.

Ma in ritardo ulteriormente, perché non sembra rispondere alla prima preghiera. Se fosse vero che Dio rispondesse alla prima preghiera che senso avrebbe l'invito a insistere senza stancarsi? E' vero che è detto: "E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano, giorno e notte, verso di lui e li farà a lungo aspettare? "Vi dico che farà loro giustizia prontamente". "Li farà a lungo aspettare?". Ci perdoni il Signore, ma a volte la sensazione è che Dio non risponda così prontamente e che faccia a lungo aspettare. "Fino a quando?". Questo "fino a quando" è un grido che attraversa tutta la Bibbia, sino ad arrivare al "fino a quando?" dei martiri dell'Apocalisse: "Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?" (Ap. 6,10)

E allora, Dio "risponde prontamente" o si fa a lungo aspettare? Forse -ma la riflessione andrebbe approfondita- forse il miracolo che avviene subito è la fede che non viene meno, nonostante il ritardo di Dio. Forse per questo conclude la parabola con l'interrogativo: "Il Figlio dell'uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra?". La troverà? Anche se tarderà ad arrivare? Allora potremmo dire: perché resista la fede "persistete a pregare senza stancarvi mai"; persistete, come Mosè sul Monte, perché la battaglia non è facile. Dico: la battaglia della vita. Non so se anche voi, a volte, abbiate la stessa sensazione, forse sì. La sensazione che, fino ad oggi, la mia non sia stata dopo tutto una battaglia così difficile, quella di altri sì.

E allora alza, come Mosè, le mani anche per loro. Sull'"alzare le mani" di Mosè ci sono due midrash bellissimi nella letteratura rabbinica. Il primo si chiede: "Erano forse le braccia di Mosè che decidevano l'esito della battaglia? Il testo deve intendersi così: quando gli Ebrei guardavano in alto e volgevano umilmente il loro animo al Padre che è nei cieli allora vincevano, diversamente soccombevano". (Ro.Ha., 29) Il secondo midrash si chiede perché quando le mani di Mosè erano stanche gli veniva data una pietra su cui sedersi. Perché una pietra e non un cuscino o una coperta per stare più comodo? La risposta: "Così pensò Mosè: siccome Israele si trova nella sofferenza, anch'io voglio condividerla".

 

 


 
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