la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella settima Domenica di Pasqua
secondo il rito ambrosiano


8 maggio 2016



 

 

At 7,48-57
Sal 26
Ef 1,17-23
Gv 17,1b.20-26

Le ultime parole di Gesù ai discepoli furono una preghiera. Le ultime. Poi è scritto: "Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli".

Un giardino, quello del Getsemani, diremmo, amato frequentato, cercato: ci andava spesso con i suoi discepoli. Nella stanza al piano superiore, la sala della sua ultima cena, l'avevano visto chinarsi a lavare i loro piedi, lasciando il mandato di lavare anch'essi i piedi dell'altro. E, uscito Giuda, il discorso di addio. Che alla fine divenne preghiera.

Giovanni sembra indugiare con estremo pudore sui sentimenti che battono e ribattono nel cuore di Gesù in quell'ultima ora. "Ha alzato gli occhi e ha pregato" ci dice. Quasi non gli rimanesse che questo. A volte non ci rimane che pregare. Per dire quello che passa nel cuore. Gli venne spontaneo: lui che viveva una comunione di pensieri e di affetti con il Padre, lui che era una sola cosa con il Padre: "Tu sei in me e io sono in te".

Potremmo forse dire che queste sono le parole che usano gli innamorati: "tu sei in me e io sono in te". Prima pregò per i discepoli che avevano camminato con lui. Poi allargò l'orizzonte e - siamo allo squarcio di vangelo di oggi - guardò più lontano. E qui mi commuovo. E ogni volta che commento - perdonate, ancora lo dico - mi commuovo.

Mi commuovo al fatto che lui pensò a noi, a me, a voi. Nella sua preghiera i nostri volti. Di noi che diamo fiducia a lui e alla sua Parola: "non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola". Purtroppo ce ne dimentichiamo - io me ne dimentico - ma la preghiera di Gesù non si è fermata a quell'ultima cena, ma continua ancora oggi e noi siamo accolti, quasi abbracciati, in questo pregare di Gesù.

Così come, in un certo senso, anche noi abbracciamo, quando ci viene chiesto da qualcuno di pregare per lui. Abbracciati dalla preghiera di Gesù. Anche oggi, anche qui, in questa memoria della sua cena. E che cosa ha chiesto per noi? "Che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te. Siano anch'essi una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato".

Lui e il Padre una cosa sola! Non certo nel senso di un assorbimento dell'uno nell'altro, ma nel senso di una comunione di vita, di intenti, di pensieri, di sentimenti, di passione, di affetti. Non era forse ciò che gli aveva permesso di affrontare la vita e ora gli avrebbe consentito di "dare" la vita? L'essere una cosa sola è una grande forza!

Non è forse quello che si promettono i ragazzi quando si sposano: "Siamo una cosa sola, insieme cammineremo, affronteremo gioie e speranze, pericoli e difficoltà della vita!"? Essere una cosa sola! Certo noi non arriveremo mai a una comunione così profonda, così coinvolgente e intima come quella di Gesù con il Padre.

Ma Gesù ritiene l'"essere una cosa sola" una condizione così importante, così decisiva della vita, che la chiede per i discepoli di tutti i tempi e ancora una volta ne fa il segno della loro credibilità: "perché il mondo creda". Forse il vero problema per il mondo, stando al vangelo, non è tanto se siamo o no credenti, ma se siamo o no credibili.

E per Gesù è l'"essere una cosa sola" che ci fa credibili. Mi sono chiesto se questa è la visione della vita che mi accompagna, se io mi sento una cosa sola con gli altri, se quello che vive negli altri appassiona anche me. I pensieri, le lotte, le speranze, i dolori, le gioie degli altri sono le mie? O invece nella mia vita faccio parte per me stesso? Mi tengo estraneo, indifferente, non mi lascio coinvolgere? Perché altri sono i miei intenti, altre le mie attese, altri i miei interessi.

Quanta strada - mi sono detto - mi rimane ancora da fare! Siano una cosa sola. La partecipazione! Sentirmi parte in causa, sentirmi partecipe. E non solo a parole, nel vissuto quotidiano. E' un modo di essere! Se no, l'espressione di Gesù "essere una cosa sola" si scolorisce. Sino a vanificarsi in un pulviscolo di parole pallide e vuote.

Voi mi capite, dovrei ripercorrere il mio modo di vivere, di sentire, i momenti della mia giornata, le mie reazioni per chiedermi con sincerità a che punto sono e quale pezzo di strada abbia ancora da percorrere. Lascio a voi i pensieri per sfiorare brevemente la conclusione della preghiera di Gesù.

Forse qualcuno di noi, leggendo le ultime parole, avrà notato come la preghiera di Gesù perda quasi il timbro di una invocazione, per prendere la forza della manifestazione di una volontà. Notate la potenza di questo verbo: "Padre, voglio…". Gesù è così intimo con il Padre che può manifestargli, quasi con forza, un suo volere: "Padre, voglio… che quelli che mi hai dato siano anch'essi dove sono io, perché contemplino la mia gloria" Questo lo voglio, dice Gesù.

Ed è una cosa che vuole per noi: che siamo dove è lui. E dove è lui ce lo ha ricordato la festa dell'ascensione: è in Dio, è nel Padre. I cieli si sono aperti: Stefano sul punto di essere lapidato fissando il cielo vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra del Padre. Noi balbettiamo, non sappiamo dire di più. Possiamo dire che Gesù ci vuole con sé nella gloria.

Ci vuole: "Voglio, Padre!". Ci sentiamo custoditi in questa sua volontà. Ma forse la domanda che ci rimane è che cosa sia la gloria? Gloria è parola che ha subito contagio. Ma Gesù la ripulisce, quando aggiunge "contemplino la mia gloria" - ascoltate! - "quella che tu mi hai dato perché mi hai amato prima della creazione del mondo".

La gloria - ora lo sappiamo - va di pari passo con l'amore: la vera gloria è l'amore. Noi vivremo nell'amore. I cieli sono aperti quando ci si ama. Dovremmo farne il nostro punto di onore. La gioia di amare, "amoris laetitia"! La vera gloria.

E quando diciamo la gioia di amare non vogliamo parlare di un amore idillico, ma di un amore che conosce anche le fatiche quotidiane, i nostri passi incerti, a volte le nostre contraddizioni. Un amore che però fonda una visione di vita, di gloria e di grandezza.

In un passaggio della sua esortazione apostolica papa Francesco a proposito di grandezza scrive: "alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l'amore che comprende, cura, sostiene il debole"(n. 97).

Ciò che ci rende grandi, la nostra vera gloria!

 

 


 
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