la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella quinta Domenica di Quaresima
secondo il rito ambrosiano


13 marzo 2016



 

 

Dt 6,4a; 26,5-11
Sal 104
Rm 1,18-23a
Gv 11,1-53

Quando si dice che Gesù è la vita, quando si confessa che in lui è la pienezza della vita -perdonatemi - ho come l'impressione che non sempre si sfugga all'astrattezza, alla indeterminatezza di quel termine vita con la V maiuscola, così maiuscola da diventare a volte pallida, molto pallida.

Per cui è una grazia, una grazia incalcolabile, la lettura di questo lungo racconto del vangelo di Giovanni. Dove, che Gesù sia pienezza di vita lo respiri ad ogni riga del racconto. La sua umanità è come se fuoriuscisse a ogni piega della narrazione. Lazzaro, che esce dal sepolcro, è come il frutto maturo di questa sua pienezza di vita, di umanità. Quasi conseguenza: "Se credi, se credi che io sono risurrezione e vita, tu vedrai la gloria di Dio". Ma quale gloria di Dio?

Al cuore ritornano d'istinto parole antiche, quelle di un Vescovo del secondo secolo, Ireneo. Che in latino suonano così: "Gloria Dei vivens homo". "Gloria di Dio è l'essere umano pienamente vivo". Gloria di Dio è Lazzaro che esce dal sepolcro. Ebbene nel racconto - lo abbiamo ascoltato - abbiamo avuto modo di incrociare la vita, quella reale: quasi apparissero, una dopo l'altra, tutte le sue sfumature, le dimensioni del nostro vivere quotidiano, tutte convocate nel racconto. Grande convocazione! Tutte convocate nella figura di Gesù: gli appartiene tutta la vita, come anche a noi appartiene tutta la vita.

Nella vita puoi essere raggiunto dalla notizia di una malattia; puoi trovarti in una situazione di pericolo - salire a Gerusalemme quando le giornate odorano di complotto -; puoi comunque decidere di farlo perché c'è di mezzo un tuo amico, perché a chiamarti sono delle amiche; può capitarti di arrivare in ritardo e di raccogliere il lamento di chi ti aveva implorato; puoi vedere visi, che tu ami, sconvolti dal pianto e può succederti che neppure tu riesca a resistere al pianto e al singhiozzo.

E nemmeno resistere a un fremito di protesta davanti all'arroganza della morte che ti strappa un amico. Hai ancora una riserva, preghi Dio, tuo padre, lo chiami in causa: devono credere che a mandarti è stato lui, deve essere manifesto che ti ha mandato non per la morte ma per la vita. Ci sono momenti - e uno è questo - in cui le parole diventano grido, prima un pianto sommesso, ma poi il grido, "a gran voce" - e penso che quella voce sarà rimasta a ricordo per giorni, per mesi, forse per anni - : "Lazzaro, vieni fuori".

E quasi ultima attenzione alla vita, alla concretezza del reale: quando tutti erano imbambolati, spettatori incantati di un prodigio, l'invito: "Liberatelo e lasciatelo andare". Ebbene quando si dice che Gesù è Vita, quando si confessa che lui è pienezza della vita -ricordiamolo - si dice e si racconta anche questo: questo tumulto di sentimenti, di pensieri, di ritardi, di paure, di attese, di indignazione e di forza prorompente, di passione. Che abitavano il suo cuore.

Detto questo, forse potremmo chiederci che cosa stesse all'origine di una simile passione che pulsa da ogni dove nel racconto. Penso - non voglio dire che sia l'unica lettura - penso che all'origine del tutto ci sia la concretezza dell'amore, penso che il nostro brano potrebbe essere letto come la rivelazione dell'amore, del modo di amare di Gesù, un amore che gli prendeva tutto, anima e corpo, un amore totalitario, passionale. Così lontano da certe immagini devozionali e scolorite attribuite a Gesù, là dove lo "spirituale" sembra aver prosciugato ogni sussulto di umanità.

E l'amore di Gesù per Lazzaro, per le se amiche, diciamolo, non è senza prezzo. Anzi è a caro prezzo. L'evangelista Giovanni ce lo ricorda con la finale del suo racconto. La misura è colma. Capi dei farisei, sacerdoti, Sinedrio giungono alla decisione estrema: va fermato, va fermato una volta per sempre. Dicono: per il bene della nazione intera, per il bene di tutti.

Una conclusione, questa, balenata, molto più di un rischio ipotetico, nella coscienza di Gesù, molto più di una cosa che può succedere o può non succedere. Gesù si era in quei giorni appartato: andare a Betania significava esporsi. E consapevoli del pericolo erano i discepoli: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?". Determinato Gesù. E dinanzi a questa sua scelta, che sembra quasi sfiorare una ostinazione, Tommaso non può far altro che dire: "Andiamo anche noi a morire con lui!".

Sì, nel racconto c'è questo intreccio di amore e di odio: la tenerezza, quella di Gesù, di Marta, di Maria, ma anche la durezza, la spietatezza dei suoi oppositori. Un intreccio che turba, l'intreccio che abita la vita. Un intreccio che anche oggi ci fa porre domande sulla vita: basterebbe leggere le cronache quotidiane o forse anche le cronache dell'anima, delle nostre anime. Che cosa deve vincere? "Finché sono vivo, finché è giorno" sembra dire Gesù ai discepoli "io cammino, io mi lascio condurre dalla luce".

Quasi dicesse: "Finché mi rimane vita, a spingere i miei passi sarà il bagliore dell'amore, le mie scelte saranno dettate dall'amore, da un amore senza condizioni". Penso che voi tutti abbiate notato come l'evento della risurrezione di Lazzaro si apra e chiuda in pochi versetti. Tutto il resto è un canto all'amore di Gesù.

"Forte come la morte è l'amore" scrive il Cantico dei cantici. Ritornando al grido di Gesù alla tomba potremmo chiosare: "Più forte della morte è l'amore". Finisco dicendovi che questo segno di Gesù non cancella tutte le nostre domande, e dobbiamo essere onesti nel non scavalcarle, onesti nel portarne il peso: e la domanda nasce dalla morte che sembra alla fin fine vincente nella vita, onnipotente nel suo disegno, pure Lazzaro ne conoscerà definitivamente l'ombra.

A noi tocca - a me sembra - sostare a questa fessura aperta dal racconto. E invocare per noi, pur nell'ombra delle nostre mille domande, la fede di Marta. Fede non significa sapere o adagiarci in definizioni, fede vuol dire affidarci a Gesù, alla luce che lo spinge, la luce di un amore senza cautele. Vorrei chiedere questa fede-fiducia per me. Penso che a tutti noi, a ciascuno di noi, venga questa parola promettente di Gesù, quella detta a Marta quel giorno, poco lontano da una tomba: "Non ti ho detto che se crederai vedrai la gloria di Dio?".

Quel giorno Marta aprì gli occhi, capi che "gloria di Dio" non è un essere umano nella morte, è un essere umano nella pienezza della vita. "Io sono la risurrezione e la vita".

 

 


 
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