la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella seconda Domenica di Pasqua
secondo il rito ambrosiano


3 aprile 2016



 

 

At 4,8-24a
Sal 117
Col 2,8-15
Gv 20,19-31

E così sembra finisse il vangelo di Giovanni. Poi ci furono aggiunte. Ma lasciatemi sottolineare la finalità per cui il libro fu scritto: questi segni - quindi anche quelli che oggi ci sono stati narrati - "sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e perché credendo abbiate la vita nel suo nome".

Quasi ci venisse detto che la fede non è l'ultimo interesse di Dio, forse il penultimo, una fede in vista della vita: "perché credendo abbiate la vita". A Dio interessa che abbiamo la vita. E che la vita sia vita in tutta la sua pienezza e armonia, come sembra alludere la parola pace. Penso abbia colpito anche voi il fatto che il risorto, come entra, come prima parola dica: "pace".

E' come se Gesù stesso si attenesse all'indicazione data ai suoi discepoli. Aveva detto loro: "In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa" (Lc 10,6). Lo fa anche lui, prima dice: "Pace a voi". E lo ridice otto giorni dopo. Quasi glielo volesse insegnare: che quando entri in una casa non devi portare condanne o timori o sospetti o distanze, pessimismi o sfiducia, ma la pace. Che nel linguaggio ebraico ha significato di pienezza, armonia della vita, armonia totale.

Porta la pace quando entri in un casa: i volti preoccupati si distendano, i visi corrucciati ritrovino un lembo di dolcezza, gli sfiduciati riprendano a respirare. Come fa lui Gesù. E forse ce n'era anche bisogno. Almeno per due motivi. Il primo: i discepoli incontravano per la prima volta il loro Maestro dopo i giorni in cui, proprio loro, l'avevano abbandonato; erano fuggiti, lasciandolo solo nella notte e nella morte.

Ebbene sulla labbra del loro Signore e Maestro non un cenno alla loro fuga, alla loro diserzione, al loro abbandono. Anzi li mandava. Potevano aver pensato che li avrebbe ritenuti inaffidabili. No, lui diceva proprio a loro: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi". E, quasi a rigenerarli nella speranza, soffia il suo Spirito su di loro. Niente parole di condanna, lui non era venuto a condannare.

Andassero fino agli estremi confini del mondo a dire la misericordia: quello che avrebbero perdonato sarebbe stato perdonato e si guardassero dal non perdonare, perché avrebbero lasciato sulla spalle e sulla coscienza il peso soffocante di una condanna.

Un secondo motivo dell'augurio di pace, augurio ripetuto, forse lo potremmo desumere pensando a quelle porte chiuse: con le porte chiuse li aveva trovati ancora otto giorni dopo. Come se quella pace, che lui aveva loro augurato, stentasse a prendere spazio dentro i loro cuori. Dentro di loro ancora dominante era il timore dei giudei che avevano crocifisso il loro maestro.

"Le porte chiuse" è un particolare del racconto che non finisce di colpirci; è diventato quasi un simbolo del pericolo che possiamo correre noi come chiesa. Succede ancora oggi di stare, dico spiritualmente se non materialmente, con le porte chiuse, perennemente agitati da una sindrome di assedio, quando, più che dell'assedio, forse dovremmo preoccuparci dell'indifferenza, dell'indifferenza verso una chiesa.

Ma non sarà indifferenza verso il sale che non è più sale, ma si è fatto insipido o si è corrotto? Preoccupiamoci quindi di non essere insipidi, insignificanti o corrotti. Porte aperte vuol dire anche non creare ambienti impermeabili, anzi vuol dire non fare ghetti o cenacoli chiusi, essere là dove sono tutti, senza pregiudizi, senza paure delle domande o delle contestazioni, nelle gioie e nei problemi di tutti. Le porte aperte. In un confronto leale e non artefatto, sereno e non astioso, positivo e non negativo.

Ma il nostro brano ci racconta anche di Tommaso, Il didimo. Che significa gemello, gemello anche di ciascuno di noi. Gemello con i suoi dubbi. Che non sono immediatamente dissolti dalla testimonianza degli altri discepoli. Forse Tommaso li vedeva ancora troppo in preda alla paura - porte chiuse - per credere che avessero visto veramente il Signore risorto.

Se fossimo sinceri con noi stessi dovremmo ammettere che anche noi come Tommaso siamo uomini e donne del dubbio. A volte ci spaventiamo quando sentiamo il dubbio attraversare mente e cuore. Anche perché il dubbio ci è stato, sempre o quasi sempre, presentato come un venir meno alla fede.

Mentre, se stiamo alla bibbia, il cammino dei testimoni delle fede spesso ha conosciuto interrogativi lancinanti. La storia di Giobbe ne è una prova. Perché credere - e ce lo ha ricordato oggi Gesù - non è vedere. Anzi c'è una beatitudine per coloro che "non hanno visto": "non hanno visto e hanno creduto".

Anche testimoni amati del nostro tempo - spesso si sottace per pudore questo lato inquietante - hanno vissuto l'esperienza del dubbio e del buio. Pensate a Madre Teresa, Teresa dei poveri, e a questa sua confessione. In una sua lettera scrive. "C'è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una sofferenza continua - e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto".

E in un'altra lettera: "Nella mia anima io sperimento proprio questa terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio, di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego perdona la mia bestemmia". Fede e non fede insieme, diremmo.

Il cardinal Martini, inaugurando nel lontano 1987, "la cattedra dei non credenti" diceva: "Ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l'uno all'altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa".

Perdonate se mi sono attardato su questo aspetto. Chiudendo, ritorno a Tommaso che si arrende alla fede perché ha visto il segno dei chiodi nelle mani, il segno della lancia nel fianco del suo Signore. Che cosa ci occorre, e che cosa ci basta per credere? Il corpo del Signore è come trasfigurato, ma non si è cancellato il segno dei chiodi, il segno della lancia, i segni di un amore che lo ha spinto a dare la vita per i suoi amici. Puoi guardare e dire: "Mio Signore e mio Dio". Anche senza toccare. Porta negli occhi il segno. Non ci spaventi il dubbio.

Vi devo confessare che tra le invocazioni che mi sono care, spesso mi accompagna l'invocazione di un padre di cui si parla nel vangelo di Marco, il padre di un figlio tormentato, che a Gesù dice: "Credo, ma tu aiuta la mia incredulità" (Mc 9,24).

"Mostrami le tue mani e il tuo fianco, Signore, perché possa abbandonare la mia incredulità. Credo, ma tu aiuta la mia incredulità!".

 

 


 
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