la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella seconda Domenica dopo Pentecoste
secondo il rito ambrosiano


29 maggio 2016



 

 

Sir 18.1-2.4-9a.10-13
Sal 135
Rm 8,18-25
Mt 6,25-33

Le parole di Gesù oggi nel brano di Matteo, parole sfiorate dalla poesia delle immagini, non sono di facile lettura. Un verbo le attraversa ben sei volte, il verbo "preoccuparsi": "Non preoccupatevi". Un verbo che non è facile allontanare dalla nostra vita. Sono preoccupato? Non sono preoccupato? Quanto sono preoccupato? Perché sono preoccupato? E' giusto, non è giusto che ci preoccupiamo?

Sembra un verbo che fa parte della vita. E il suo opposto, il "non preoccuparsi", sembra sconfinare in una sorta di ingenuità passiva, irresponsabile. Il problema si acuisce anche perché l'invito di Gesù a non preoccuparsi riguarda cose che ci paiono necessarie: cibo e vestito. E subito ci sfiora il pensiero che un giorno fu lui stesso a invitare con forza a dare da mangiare agli affamati, a vestire gli ignudi.

E ritornano allora le domande: giusto o no preoccuparsi del rispetto della dignità di ognuno? Del lavoro dei giovani? Degli equilibri sociali? Della bellezza del creato? Della limpidezza evangelica della chiesa? E potremmo allungare all'infinito. Forse c'è da distinguere tra "preoccupazione", giusta preoccupazione, e "ansia", ansia che ti consuma. Che ti divora, ci divora interiormente.

La distinzione non è facile. Ma Gesù ce la insegna. Ce la insegna innanzitutto disegnando un orizzonte che può salvarci dall'affanno, dall'ansia, dalla loro presa negativa su di noi. E l'orizzonte, cui aprire gli occhi, cui aprire sempre più gli occhi, è quello - così vorrei chiamarlo - della "cura" di Dio, la cura di Dio per le sue creature. Si prende cura degli uccelli del cielo, si prende cura dei gigli del campo. Chissà quante volte lui si era fermato a contemplare nidi di passeri o chiazze di colore dei gigli, vestiti inarrivabili!

Cosa che più raramente facciamo noi oggi, consumati come siamo dalla frenesia, dalla fretta. Dio si prende cura, Dio nutre, Dio veste. E quanto al vestire forse ha commosso anche voi il ricordo di Dio per l'erba. Gli uccelli dell'aria e i gigli del campo ai nostri occhi sembrano avere più consistenza, più plausibilità di essere ricordati e quindi di ricevere cura. Ma l'erba del campo? Potrebbe sembrare così poca cosa! Così precaria! "Ora, se Dio veste così l'erba del campo che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto più per voi, gente di poca fede?".

La cura di Dio per l'erba, oserei dire per un filo d'erba, mi fa pensare e mi commuove. E forse a qualcuno di voi ritorna nella memoria un racconto di Pirandello dal titolo "Canta l'epistola" e l'incantamento di Tommasino, la sua passione per la storia di un filo d'erba, dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto: "Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva con l'anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che spuntavano nel cielo crepuscolare, perché con tutte le altre lo vegliassero durante la notte".

Quasi una icona della cura che Dio ha per un filo d'erba. E, dietro l'immagine dell'erba, ognuno di noi, colto nella sua piccolezza infinita - perdonate l'ossimoro! -, quella piccolezza su cui Dio si china, come ci ha ricordato oggi il libro del Siracide. Che cosa sono i giorni dell'uomo? Fossero anche cento! "Come una goccia d'acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell'eternità. Per questo - notate, per questo - il Signore è paziente verso di loro ed effonde su di loro la sua misericordia".

Mi sono chiesto se non è proprio questo chinarsi di Dio sul filo d'erba, sulla nostra piccolezza e fragilità, che ci libera dall'ossessione e dall'affanno che ci consumano. E' l'orizzonte che Gesù apre al nostro sguardo. Al mio sguardo, sguardo di un uomo "di poca fede", dice il vangelo. Ma ora vorrei inseguire, se mi riesce, un'altra suggestione.

Mi è sembrato di sorprendere nella cura che Dio ha degli uccelli dell'aria, dei gigli del campo, del filo d'erba, della donna e dell'uomo, quasi un prolungarsi, nel tempo, della sua creazione, come se la sua cura non conoscesse pause o soste. Ha dato vita ad ogni essere vivente, ora con il soffio del suo Spirito lo accompagna e lo anima, lo porta a nuovi sussulti di vita, a nuove fioriture.

Ebbene - così sembra a me di capire - nella cura di Dio, che si prolunga nel tempo, c'è una novità: che oggi questa cura è affidata anche alle nostre mani. Lui, Dio, la affida anche alle nostre mani. Sta a noi dare sussulti e impulsi buoni alla creazione che attende compimenti.

Alla creazione, che, come oggi ci ricordava l'apostolo Paolo, "geme e soffre le doglie di un parto". Siamo lontani, lontanissimi, da visioni come "Non preoccuparti, tanto ci pensa Dio!". Non sta qui la vera fede, né sta qui la vera immagine di salvezza. Se così fosse Gesù non ci avrebbe detto di cercare sulla terra, sulla nostra terra, il regno di Dio e la sua giustizia. Si tratta - voi mi capite - di collaborare con Dio, di imitarne le opere, di seguirlo nei suoi intenti.

In un passo del talmud babilonese si racconta di Rabbi Chama' bar Chanina che un giorno si chiedeva che cosa mai significasse "seguire Dio". E rispondeva: "ciò significa che si deve seguire la condotta di Dio: e come Dio ha vestito quelli che erano nudi, Adamo ed Eva, vesti anche tu quelli che sono nudi; come Dio ha visitato gli ammalati, Abramo, pure tu visita gli ammalati; come Dio ha consolato gli afflitti, Isacco, consola anche tu gli afflitti; come Dio ha seppellito i morti, Mosè, tu pure seppellisci i morti".

La cura di Dio ora è anche nelle tue mani.

 

 


 
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