interventi


Angelo Casati , il 14/10/2007, Bose



"Agli amici di bose"

Non è senza una certa emozione che prendo la parola. In qualche misura mi sento spaesato, perché per me questo luogo, Bose, non è mai stato il paese in cui parlare, ma il paese in cui ascoltare e dunque mi sento un po' fuori paese, fuori del paese dell'ascolto. Enzo ci chiede di radunare qualche riflessione sull'eredità che ci lascia questo lungo cammino di prete. In qualche misura è un invito a riandare al cammino percorso.

E così mi si affaccia alla memoria, e ne sento l'emozione, il giorno in cui arrivai qui e tenni fra le mani la piccola fune di una campanella: "suona" era scritto "e qualcuno ti accoglierà, senza chiederti chi sei…". Forse le parole non erano queste, ma il suono era questo. La comunità monastica allora era il piccolo granellino di senapa. Per vie inattese, che io chiamo grazia, mi fu dato incrociarla.

Perché parto di qui a dire qualcosa del cammino, perché questa è una prima eredità lasciatami dagli anni. La percezione della grazia: essere sfiorati da Dio, dalla grazia, dalla bellezza del suo amore. Ricordate il vangelo: il piccolo granello di senapa e l'albero che ospita gli uccelli del cielo? Può essere cifra del mio cammino. Vi confesso che, quando mi fermo a guardare l' albero, appena lo osservo, mi riconosco nel granello di senapa. Credetemi avverto tutta la sproporzione. A volte dico parole e qualcuno viene a dirti che è rimasto toccato, ma erano piccole parole. A volte mi fermo a meditare la parola di Dio e mi sorprende un approfondimento, ma da dove viene? Faccio un gesto e qualcuno intravede qualcosa del regno, ma chi lo avrebbe immaginato? Ti senti piccolo, inutile servo. Non c'è proporzione. E dunque un primo riconoscimento è questo di essere nella dismisura: riconoscimento di Dio, di un Dio che con me, con noi, usa questa dismisura.

La sensazione è di essere stato accompagnato, di essere oggi accompagnato. Salvato. Io salvato prima di tutti. Io uomo come tutti. Per riprendere le parole del libro della sapienza: io che "ho respirato l'aria comune, e sono caduto su una terra uguale per tutti, levando nel pianto, uguale a tutti, il mio primo grido". E dunque la dismisura della grazia che trionfa nella piccolezza.

E questa grazia, vorrei sottolineare, dentro i segni piccoli. Noi siamo abbagliati dal colossale, dallo strepitoso. Oggi come ieri, e forse più di ieri. Anche la comunità di Corinto, come sapete era abbagliata dai segni eccezionali, straordinari, strepitosi. E Paolo risponde: "forse abbiamo bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? Siete voi la nostra lettera, scritta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole che sono i cuori di carne" (2 Cor 3,1-3).

Vedete, c'è sempre questo abbaglio che Dio debba rivelarsi nel clamore, nello straordinario. Ma già l'Antico Testamento ci ha raccontato di Elia che, sul monte, non trova Dio nei lampi, nei tuoni, nella tempesta. Lo trova in un sottile filo di vento, nel fruscio del silenzio. E Gesù, pensate, ha raccontato Dio, svuotando se stesso delle prerogative della sua divinità, facendosi uomo. Ha raccontato Dio non nella ubriacatura della potenza, ma nella vulnerabilità. Nella vulnerabilità della nostra carne.

Questo è lo stile di Gesù. Noi lo abbiamo messo da parte, come i "super"di Corinto, quelli ammaliati dai vip, vip di ogni colore, anche religioso. E andiamo a cercare Dio nell'eccezionale, nel perfetto, nella forza. Non nella debolezza. Nella debolezza di una vita così com'è. Ma, così facendo, noi non testimoniamo il vangelo. Sarà un' altra religione forse. Ma non chiamiamola vangelo. Guardate che questo non avveniva solo un tempo, nella chiesa di Corinto, ma avviene anche oggi, nella nostra chiesa. Vi sembra che si guardi, che ci sia attenzione per la lettera di Dio, quella scritta nella pelle della gente? Per le realtà piccole e semplici in cui è scritto il vangelo?

Ma, ecco la domanda, chi scrive la lettera? La lettera che siete voi? Non siamo noi preti, non siete stati scritti da noi: "scritta non con nostro inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente". Noi preti, e anche coloro che abitano questo monastero tanto caro al nostro cuore, tutti assistiamo con stupore a questa sproporzione tra quel poco o quasi niente che facciamo noi e le cose grandi che fa Dio. Dove? Nei piccoli, nei bassi: "ha guardato la bassezza della sua serva", la sua piccolezza, il suo niente.

Chiediamoci allora: dove vanno i nostri occhi, a chi e a che cosa diamo attenzione? Oggi siamo attratti da ciò che luccica, da ciò che fa rumore. L'ossessione del grande. Anche in campo ecclesiastico.

La piccolezza, terra emarginata, creatura in esilio. Eppure ti rimane a memoria, e non ti riesce di staccartela dagli occhi e dal cuore, la parola di Gesù, che si emozionava, si incantava davanti ai "piccoli" . E gli veniva di benedire Dio: "Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt 11,21) . Il tesoro secondo Gesù è nella terra della piccolezza. Noi, al contrario, contagiati dal mito del successo, dell'esibizione, del colossale, scaviamo, a perdita di tempo, in altri campi, alla ricerca del tesoro. Con il risultato di estrarre tesori che sono fantasmi, volti truccati, maschere d'umanità, storie senza i colori dell'anima.

L'ossessione del "grande", dell'esibito, dell'urlato ci fa visitatori frettolosi, superficiali della terra, della terra del vivere quotidiano. Passiamo e non vediamo o perché c'è un mito sempre più in là da inseguire o perché c'è uno dei tanti proclami ecclesiastici da realizzare. Mentre intorno a te pulsa la vita: pulsa nelle vene dei volti, nelle vene delle storie quotidiane. Pulsa Dio: è storia sacra.

Se hai questo sguardo affettuoso, ti potrai incantare per le storie, le mille storie, di cui sei fatto partecipe ogni giorno, dalla nascita alla morte. Solo che tu guardi. Lettera di Dio sono i volti.

Sono i volti dei neonati che le mamme ti portano, è quasi una processione, dopo la Messa della domenica. Ti dicono: "è giusto che questo cucciolo ti veda, dopo averti ascoltato per tante domeniche nella mia pancia". Sono la lettera di Dio. Leggila.

Lettera di Dio, sono i ragazzi che ti cercano per annunciarti che si vogliono sposare, vedi che si stringono. Vorresti far sentire loro, sulla loro pelle, il sorriso di Dio, il Dio che in principio, quando creò l'uomo e la donna, si incantò a guardarli: "vide" è scritto "che erano una cosa bella, molto bella" (Gn 2,31).

Lettera di Dio là dove scorgi avvicinamenti a Gesù, perché la parola di Gesù, scrostata dalle pesantezze umane, dal carico delle tradizioni ecclesiastiche, ha avuto il potere di far sussultare il cuore.

Una lettera di Dio ti è sembrato di ricevere il giorno in cui una ragazza ti raccontò di suo padre da mesi moribondo, che faticava ad andarsene. Giorni e giorni di apparente incoscienza. Poi lei ebbe un presentimento, disse al papà: "Papà, va tranquillo, alla mamma ci pensiamo noi". Se ne andò leggero, come aspettasse solo questo.

Lettera di Dio anche i volti, a volte stanchi o gli occhi rigati di tristezza e tu leggi quanta passione nel cuore. E vorresti abbracciare.

Lettera di Dio le mani della tua gente che nell'incavo del palmo della mano accolgono il pane delle Cena dl Signore. Leggi in quelle mani il segno di uno stupore e di una tenerezza infinita per il mistero che arde nel pane.

Lettera di Dio paradossalmente anche i troppi allontanamenti dalla chiesa, allontanamenti che ti sembrano gridare l'attesa di una chiesa meno interessata ai suoi privilegi, più appassionata di vangelo, il nudo vangelo.

Ognuno di noi potrebbe a lungo raccontare le tante lettere di Dio, sconosciute a chi corre dietro i miti pallidi della grandezza. Sconosciute a chi non ha tempo di indugiare a contemplare.

Sono innamorato di Gesù e della sua vita. Gesù passava, vedeva, si fermava. Non era della razza degli uomini religiosi della parabola, che vedono e tirano diritto. Loro hanno un programma troppo importante da realizzare! Diversa la "pastorale" di Gesù, il suo modo di costruire il regno di Dio. Era una "pastorale" di volti. Il pastore, che vive i giorni e le notti delle sue pecore, le conosce a una a una, si prende cura della pecora madre, e di quella stanca, di quella ferita dalla vita.

Gesù ha seminato nel mio cuore un sogno. Così sogno. Che la vita della chiesa non sia fatta di documenti, di infiniti programmi, di altisonanti proclamazioni, ma di passione per i volti.

D'altro canto penso alle Scritture sacre che sono storie di volti, penso alla vita di Gesù che fu un' osservatore di volti, fino a rivendicarne la priorità: anche allora si mettevano tante cose, troppe, prima del volto, e lui diceva: "il sabato è per l'uomo non l'uomo per il sabato"(Mc 2,27). Confesso una mia ritrosia nei confronti dell'organizzazione, dell'eccedere dell'organizzativo, questo ispessimento organizzativo che non permette o non lascia tempo di vedere volti, di incantarci davanti ai volti. Zaccheo trova le schiene degli osannanti che accompagnano Gesù e si deve inventare un luogo di avvistamento, un albero. Per Gesù Zaccheo è un volto, si ferma. Lo chiama per nome. Mi pare di scorgere spesso questa barriera. Ti verrebbe voglia di scoperchiare il tetto. Forse anche oggi è da fare! Per calare il paralitico davanti a Gesù. Sì, perché è in crescita questo aspetto organizzativo: ad adempimento si aggiunge ad adempimento e viene meno il tempo per la relazione.

Vi dirò che anni fa, forse trenta, ero rimasto affascinato dalla lettura di un libro di Italo Mancini, "Tornino i volti", affascinato dalla sua riflessione che attingeva a correnti di pensiero che si stavano affacciando, affascinato dalla riflessione sul volto, un volto, lui diceva, da guardare, da rispettare, da accarezzare, il volto la parte più indifesa, più esposta. In questi anni mi sono chiesto se in qualche misura la critica, rivolta alla società che ha messo a centro del mondo l'essere, l' "io sono", l'io dominatore, che cancella il volto dell'altro, l'io prepotente, totalizzante, non potesse essere rivolta in qualche misura anche alla nostra struttura ecclesiastica, per una infedeltà al vangelo, al suo Signore Questa cultura non ha contagiato segmenti della nostra pastorale?

È così che mi si è acuita l'intuizione che il vangelo passa attraverso l'ospitalità. Era la cosa che mi aveva affascinato entrando per la porta di questo monastero. Forse potremmo dire che uno si sente amico quando si sente ospitato, in uno sguardo prima che in un luogo. E vedo anche il pericolo che l'ospitalità, l'accoglienza evangelica, sia interpretata o vissuta come un espediente, come il trucco per passare l'evangelo e non come essa stessa, nella sua incondizionatezza, essa stessa l'evangelo. "Gesù" è scritto nei vangeli "accogliendo parlava del regno di Dio". Nella versione liturgica della domenica abbiamo cancellato l'inciso, che forse non è inciso, "accogliendo"" E così si legge: "Gesù parlava del regno di Dio alle folle". Peccato! Perché, prima ancora che nelle parole, il regno traluceva da quella accoglienza indiscriminata, incondizionata di Gesù.

Mi è capitato spesso di chiedermi quale cura noi abbiamo nella nostra vita oltre che nella nostra comunità di questa dimensione che mi sembra epifania del vangelo, l'accoglienza. Preoccupati di dire e di che cosa dire. Ma a volte è un dire che non accoglie. Qui, a Bose, siamo stati affascinati dal vangelo dell'ospitalità.

E ospitare significa capire la sete. Qui, a Bose, io, penso tutti noi ci siamo sentiti interpretati nella nostra sete. E, a mia volta, la mia vita di prete è stata un sognare e un chiedere a Dio di capire la sete.

Ho detto sognare perché non sempre ci riesco, ma so che la strada è questa. La strada è accorgersi della sete che è nell'altro. E la potrai scoprire, solo dopo averlo seguito, accompagnato. Lo saprai da lui. Non imponiamogli i nostri bisogni spirituali.

Dove va la sua sete? Questa domanda mi riporta al cuore un midrash, un racconto della tradizione rabbinica che parla di Mosè:

"Fu col gregge che il Signore lo mise alla prova. Osservano i nostri maestri: una volta, quando Mosè pascolava il gregge di Ithro nel deserto, gli sfuggì un capretto: Mosè gli corse dietro sino alla fessura di una roccia. Giunto là, il capretto si fermò davanti ad una cisterna per bere. Quando Mosè gli fu vicino, gli disse: "ma io non sapevo che tu corressi per la sete! sei, dunque, stanco?" E, nel dire così, se lo mise sulle spalle e continuò a camminare. Allora il Santo, benedetto Egli sia, gli disse: "poiché tu hai compassione e sai guidare il gregge degli uomini, sono certo che saprai guidare anche il gregge del mio popolo Israele".

Forse potremmo accompagnare l'immagine della sete -capire la sete- con uno dei sogni del Card. Martini sulla chiesa". In stretta consonanza: "sogno" diceva "una chiesa che parli dopo aver ascoltato e solo dopo aver ascoltato". E la realtà, aggiungo io, è ancora lontana. Lontana dal sogno del Cardinale.

E se posso aggiungere un altro mio sogno, sogno una chiesa più sbilanciata, come il suo Signore, verso chi è fuori. Sì, perché un'altra eredità, che mi porto nel cuore, è questa, è custodita in quella parola paradossale del vangelo, che scuote tante nostre appartenenze, la confessione di Gesù: "presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande" (Mt 8,18).

Vorrei farvi questa confidenza: negli anni del Concilio, gli anni di Busto Arsizio, in cui conobbi Enzo, accanto a lui conobbi l'imprevedibilità dello Spirito. Ma in questi anni purtroppo stiamo patendo questo barricarsi della chiesa al suo interno, almeno nella sua immagine prevalente. Gesù, so che sto per esagerare, era sbilanciato verso l'esterno. Leggeva segni dello Spirito e s'incantava per le vie imprevedibili dello Spirito. Lo Spirito come il vento: "il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va" (Gv 4,8). E non è detto che debba passare per i tempi che immaginiamo noi o negli esiti previsti da noi, quasi che tutto debba essere sotto controllo e fondamentalmente dentro l'istituzione. Questa mancanza del controllo oggi è vissuta dalle gerarchie come disagio, fatica, timore. Al contrario è grazia, è salvezza, salvezza da ogni volontà di sequestro, di imprigionamento, salvezza dalla pretesa di sapere tutto: "sei qui, chi sei, quanto tempo ci stai?". Controllori dello Spirito! Nei vangeli leggiamo di questi incontri affascinanti, che cambiarono una vita: avviene l'incontro e poi non si sa più niente: Zaccheo, la samaritana, e quanti altri, che poi non ritroviamo nel registro dei frequentanti. L'etiope, funzionario della regina di Etiopia, battezzato dal diacono Filippo, senza nessuno dei nostri adempimenti canonici. Battezzato al torrente. Aveva scoperto Gesù sul carro. Poi scompare. Scompare nel segreto di Dio. I pastori, pensate, quelli che vegliavano il gregge la notte della nascita! E' necessario uno sbilanciamento e lo sbilanciamento è verso chi è fuori secondo i nostri canoni. E' rimasto qualcosa di questo sbilanciamento vissuto da Gesù? In questa stagione ecclesiale siamo, secondo voi, sotto accusa per questo, perché frequentiamo quelli che sono fuori? Capite perché mi capita di sognare una comunità che sia, come Gesù, criticata come lui per questa sua vicinanza: perché mangia con i pubblicani e i peccatori e coglie la loro sete. Pensate la pena di quella porta della chiesa chiusa, chiusa al funerale. Un simbolo!

Cogliere la sete nell'altro e scoprire che è sete di Gesù. Sono arrivato al cuore. Lui l'acqua zampillante. Ma il Gesù dei vangeli, capite! Non quello addomesticato. Siamo arrivati al punto che una chiesa parli di tutto fuorché di Gesù, con documenti che parlano di tutto, con battaglie fatte in nome suo, ma lontani dallo stile che lo qualificava. Ci sentiamo dire, spesso, anche dal mondo laico. Ma parlateci di Gesù. E qui vengo al cuore di ciò che il cammino mi ha lasciato, e di cui sono grato a questa comunità e al card. Martini, grato per l'acqua zampillante, custodita nel pozzo. Perché ogni giorno di più vado scoprendo che di questa acqua, della Parola di Dio, e di Gesù, la parola fatta carne, il cuore, anche il cuore di questa generazione, ha sete.

Mi è capitato a volte di paragonare nel cuore Le Scritture Sacre ai grandi invasi d'acqua, le dighe stupende che danno emozione sui monti. Anni fa, quando avevo l'avventura di passare l'estate nell'Alta Valtellina, oltre le torri di Fraele, là dove vieni rapito per valli di ininterrotto stupore, spesso mi succedeva di incantarmi davanti allo spettacolo mozzafiato di gigantesche dighe, bacini immensi d'acque di immensa potenza: a specchiarvisi erano le catene dei monti. Senza quei bacini immensi sui monti, le nostre valli sarebbero immerse per sempre nelle nebbie e nella notte.

A volte però lassù pativo un'altra emozione. Mi perdevo a immaginare -agli occhi non era dato intravedere- le segrete canalizzazioni delle acque nelle pareti dell'immensa diga; e poi, più a valle, oltre le turbine, il ramificarsi delle acque, quasi una ragnatela di canali che fanno verdissima la valle. I prati -mi dicevo- vivono certo dei bacini, ma vivono anche dei canali, che portano lontano, nei luoghi più impensati, il miracolo delle chiare e fresche acque.

E così nel cuore, allo stupore per l'immenso bacino, s'accompagnava e cresceva l'emozione per gli umili e segreti percorsi. E a quelli vado legando l'immagine a noi cara di questo monastero, che mette al centro le Scritture Sacre e le riconsegna a noi, uomini e donne della valle. Superando ogni separatezza.

In questa luce vorrei evocare finendo un midrash sull'esodo. Racconta il midrash:

"Ecco a che cosa somigliava il pozzo che accompagnava gli ebrei nel deserto: somigliava a un macigno, forato come uno staccio, dai cui fori l'acqua zampillava, come se uscisse da un'ampolla. Il pozzo girava, saliva e scendeva: saliva con loro sui monti, scendeva nelle valli. Là dove gli ebrei prendevano stanza, il pozzo si fermava in posizione elevata. L'acqua allora sgorgava e saliva in alto in forma di colonna; ogni principe scavava un solco col proprio bastone e ciascuno faceva affluire l'acqua in direzione della propria famiglia e tribù".

L'arte è quella di scavare solchi perché arrivi l'acqua. L'esperienza mi dice che non raramente succede che quest'arte di scavare solchi sia più in persone che non frequentano ambienti ecclesiastici che in quelli che vi stazionano. Loro capaci di passare parola: Come la donna Samaritana. Anche solo con un' interrogazione: "che sia forse il Messia?" (Gv 4,29). Un passa parola che si serve per lo più di mezzi semplici, di cose piccole, di voci autentiche.

Benedetti gli umili bastoni, benedetto il loro scavo, benedetto Dio per il pozzo, il pozzo dell'acqua viva, che zampilla per la vita eterna.

don Angelo

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