articoli di d. Angelo


 

Un volto fragile lo accarezzi


"Lentamente" mi sto dicendo.
È una critica dovuta. Al mio passo affrettato. Al passo concitato di questa mia città. Il passo affrettato, concitato, svela in noi, nascosto, inconfessato, uno sfregio. Uno sfregio di onnipotenza. La pretesa di essere tutto. Di avere tutto. Quasi fossimo un assoluto. Quasi ci fossero cose baciate dal crisma dell'assoluto. E noi percorsi da un delirio di onnipotenza. In perenne ossessiva agitazione. Quasi che il problema fosse fare qualcosa in più. Dimenticando che, come dice Antonietta Potente, la teologa domenicana che ora vive in Bolivia, "l'es-senziale non è certo fare di più, è fare ciò che ci serve per vivere".

Come se fossimo in perenne lotta con la nostra precarietà e la volessimo nascondere, a noi stessi e agli altri, truccandoci con maschere più o meno seducenti. Ma i trucchi sul viso si sciolgono in righe sciupate di nero ogni volta che al volto bussi un rigo di pioggia.
Come sono più veri i volti non consumati dal mito di essere diversi, dall'ansia di apparire assoluti: ti si danno nella loro verità e fragilità. Un volto potente lo temi, un volto fragile lo accarezzi.

Ci sono occhi - mi son detto giorni fa - in cui abita senza veli, senza accecamenti, il mistero tenero della nostra fragilità.

Mi erano rimasti nel cuore gli occhi di una giovane donna, impotenti a trattenere il pianto. Non era della nostra città. Nella nostra era venuta ad assistere il marito per un trapianto. Strappata in quei giorni a una figlia, a sua volta devastata da un male che la rende a volte fuori ogni controllo.

E nel mio cuore rimormoravano le parole del padre del vangelo, il padre del ragazzo, che si gettava nell'acqua e nel fuoco. E d'improvviso mi sentii, né più né meno, come quei discepoli, impotenti davanti al male. Ci volle il Maestro. Ci volle la fede e la non fede di quel padre. Ci volle il grido. Alla parola apparentemente assurda di Gesù: "tutto è possibile a chi crede", quel padre subito, gridando, disse: "Credo. Aiuta la mia non fede" (cfr. Mc 9,23-24). Confessione, a ben vedere, di una fede, ma anche di un'assenza di fede. Confessione di una fragilità. Riconosciuta. E fu miracolo.

Non ci sarà miracolo per la giovane donna. Si asciugava gli occhi. E quando se ne andò ancora se li stava asciugando. Se c'era un velo, un brivido di consolazione, e forse c'era sul suo volto, non era certo "per grazia ricevuta", ma solo per il suo resistere, nonostante tutto. Nella fede e nella non fede. Come il padre innominato del vangelo.

Ti dirò che non mi ritrovo invece - mi lasciano molto disgusto - nelle storie che fanno le cronache dei soliti noti, i numerosi vip dell'estate. Sento la stanchezza dei fuochi fatui, i fuochi della falsità. E mi chiedo come e perché si spendano tempo e righe a raccontarle. E a inseguirle. E come si possa esserne abbagliati. Odori il vuoto e l'insensatezza. E vorrei chiedere per me, e non solo per me, la capacità di resistere nell'arte di un inossidabile disincanto.

Il vangelo la chiama stupidità. Una voce risuona, dall'alto - o dal di dentro? - e la chiama stoltezza: "Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta l'anima… e quello che hai accumulato di chi sarà? " (Lc 12, 20). Una voce che ha il rimbombo della notte. È Dio che mette in guardia dalla stoltezza, dalla stupidità. Un servizio prezioso, il suo, all'intelligenza. Alla nostra intelligenza.
Stoltezza, secondo la Bibbia, è dimenticare che la nostra vita è un soffio, dimenticare la condizione di caducità, di precarietà, di fragilità che connota la vita di ciascuno di noi. Nella voce della notte, che chiama stolto l'uomo che perde la testa dietro i magazzini, solo preoccupato di costruirne di più grandi, mi sembra di cogliere, non so se sbaglio, un sottile velo di ironia. La sottile ironia di Gesù su questo considerarci dei "padri eterni".

Una sana, benedetta ironia che forse qualcuno di noi ha ritrovato nelle cosiddette "danze macabre", le danze della morte negli affreschi di alcune chiese antiche. Dove, nella danza macabra, venivano raffigurati, insieme ai poveracci - direi, bersagliati più di loro! - i cosiddetti grandi, papi, vescovi, principi e le loro vanterie. Che cosa resiste? Che cosa ne è della loro autosufficienza?

Non è forse anche questo l'insegnamento del libro del Qoelet? Qualcuno è giunto a chiedersi che ci stia a fare un libro simile nella Bibbia, con il suo realismo lucido, con il suo timbro laico, con il suo assoluto disincanto. "Tutto è spreco" dice il Qoelet "alla fatica non corrisponde nessun frutto, ciò che l'uomo raccoglie svanisce, svaniscono i beni, svanisce la scienza, se ne va la vita".

Sembra di riudire le parole del salmo 90:
Finiscono i nostri anni come un soffio
gli anni della nostra vita sono settanta
ottanta per i più robusti
ma quasi tutti sono fatica e dolore
passano presto e noi ci dileguiamo.

Ma chi scrive queste parole - sarebbe uno sbaglio pensarlo - non vuole lasciare pessimismo nel cuore, vuole solo salvarci dalla cecità, la cecità dell'uomo della parabola, l'uomo stolto, l'uomo, se stiamo alla parola greca, "senza intelligenza": ha i magazzini pieni, ma la vita vuota, l'anima vuota.

Chi infatti vive unicamente per produrre, unicamente per possedere, unicamente per esibire, si illude che questo sia vivere, in verità insegue fantasmi.

Per questo, lo confesso, a volte ti sembra di vivere un tempo abitato da fantasmi. La società li va celebrando, ma sono fantasmi. Beati noi se saremo trovati, dice il vangelo, vigilanti. Vorrei tradurre, mi si perdoni, se saremo trovati non ipnotizzati, non narcotizzati, non ammaliati, ma con gli occhi aperti sulla vita, la vita vera.

E confessiamoci fortunati, raggiunti da una grazia, quando incrociamo persone vere, quando incrociamo creature che semplicemente vivono, che si danno a noi senza rinnegare la loro misura, senza nascondere il loro limite. Ti ricordano che cos'è vivere. Ti salvano dal pericolo di vivere in sospensione. In sospensione di vita. Ti fanno toccare la vita così com'è. Perché sì, la vita è da toccare. Nelle sue gioie e nelle sue tristezze, nella sua dolcezza e nella sua fragilità. Penso alla giovane donna, ai suoi occhi di pianto. Sei ricondotto alla vita.
Potrà sembrare un paradosso, ma proprio chi riconosce senza amarezza la fragilità, che segna le cose e la vita, ne sa veramente godere, sa godere quel poco o tanto, di luce e di grazia, che le abita. Non ne fa un assoluto. Per questo ne può godere, ne gode come di un dono che già oggi gli è dato, ne gode non chiudendo i magazzini, ma facendone partecipi gli altri.

Proprio dal libro del Qoelet viene questo invito che sposa sorprendentemente la coscienza della caducità della vita alla miracolosa capacità di goderne:

Va', mangia con gioia il tuo pane,
bevi il tuo vino con cuore lieto,
perché Dio ha già gradito le tue opere.
In ogni tempo le tue vesti siano bianche,
e il profumo non manchi sul tuo capo.
Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole
(Qo 9,7-9).

 

Non sa goderne chi cede a questo ritmo ossessivo asfissiante che ci sta consumando. Consumo di umanità.
"Lentamente" mi dico. E non sempre ascolto. Ti sta sfiorando, mi dico, una grazia. Ora. E forse sei via. A inseguire il nulla. Rifiuta la stupidità. E godi della grazia che abita le cose.
Con te, con tutti coloro che in questi giorni riprendono un impegno, vorrei condividere un augurio.
È custodito nelle parole di uno scrittore amico, Erri De Luca (Opere sull'acqua e altre poesie, Einaudi, To, 2002):

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi. Provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Ti auguro, mi auguro, di poterli conoscere.

don Angelo


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