UNA
TERRA DA CUI SPIARE DIO
Siamo
in fila. In attesa di sbarcare. L'aereo è atterrato
da poco. Gli occhi sono al portello anteriore. Tra poco
verrà aperto e la lunga fila si metterà lentamente
in movimento. Mentre, bagaglio in mano, fissi lontano l'uscita,
senti già nell'aria voci che ti invitano a raccontare.
Torni dalla Terra Santa.
E io resisto. Non sono così pronto, così immediato.
Appartengo alla razza dei lenti, di coloro che invocano
tempo. Tempo di sedimentazione. E mi sorprendo a sognare
il riposo della terra. E che questa grazia, perché
di grazia si tratta, del pellegrinaggio nella terra dei
padri, riposi nella terra del cuore. E che nessuno pretenda
di portare alla luce il seme che ha bisogno di tempo e di
invisibilità. Hai bisogno di raccontare a te stesso
prima di raccontare agli altri. Come se ogni raccontare
agli altri fosse pallido o vuoto, se prima non hai raccontato
a te stesso.
Ora con il passare dei giorni ti ritrovi negli occhi delle
immagini. Lentamente, giorno dopo giorno, forse scoprirai
il filo, il filo rosso che indissolubilmente le lega. Ti
racconto immagini.
Ma, prima ancora, quasi fosse un debito, ti racconto due
nomi. Ci avrebbero accompagnato nel nostro pellegrinaggio.
Per noi erano solo due nomi: Francesco e Antonella. O forse
no. Qualcosa del volto, del loro, era affiorato a poco a
poco in noi incrociando pagine e pagine dei loro scritti.
Nell'affollato aeroporto Ben Gurion di Lod siamo alla ricerca
del loro volto. Finalmente leghiamo ai nomi un viso: gli
occhi chiari di P. Francesco Rossi De Gasperis, gesuita
del-l'Istituto biblico di Gerusalemme e la voce, timbro
inconfondibile, di Antonella Carfagna, con studi biblici
e specializzazioni alle spalle. Occhi e voce a custodia
di memorie, le memorie dei padri e di Gesù, memorie
che ardono come brace nel Libro Santo e nella Terra Santa.
La prima immagine del pellegrinaggio è di una terra
che si nasconde. Si nasconde a poco a poco nel velo d'ombra
della sera, mentre puntiamo verso il deserto del Neghev,
lungo il bassopiano collinoso della Shefela. Il nome, da
antica radice, evoca l'umile, il piccolo, il basso. Più
che di statura, di vita. Una parola che, oggi mi accorgo,
mi ha accompagnato per tutto il pellegrinaggio. Come ciò
che sta all'in principio. Quasi una sorta di introduzione,
una porta di accesso, ma umile, piccola, bassa. Se non ti
abbassi non entri. Era come una condizione per il viaggio,
forse per ogni viaggio.
Sentivi nella sera raccontare. Era la voce di Antonella.
Raccontava l'avventura di un Dio che proprio nella terra
umile di questo bassopiano, aveva raccattato, Dio barbone,
i piccoli, gli avanzi, quelli scartati. Qui, nella Shefela,
il piccolo, Davide, aveva un giorno piegato il gigante,
Golia.
E non è forse vero che proprio la terra che noi chiamiamo
santa sarà un giorno testimone del fatto più
sconvolgente della storia? Il Dio immenso si farà,
a misura d'uomo, piccolo, abbassando il suo cielo.
Gli occhi perduti
nel rosseggiare dolce e silente
di assorti orizzonti
interroghi l'incendio dei cieli
quasi tinti di tenerezza
che fanno sospeso il cuore
e sfiori l'inatteso
miracolo di un Dio
che qui ha inclinato i suoi cieli
fino a baciare la terra.
Il sole sorge sul deserto. Il pellegrinaggio non può
avere se non qui il suo incipit, pena strapparlo alle sue
radici. Percorriamo il deserto. tra rocce e dune, evochiamo
storie, brividi di libertà nelle sabbie e lamenti
e stanchezze. Tocchiamo l'arsura, tocchiamo la bellezza.
Rocce del Neghev
istoriate. a fantasia
di sabbie di vento
e gole d'azzzurro
a vista di stambecco.
E tetto d'ombra d'arbusto
dimora
al grido sconsolato
del figlio di Agar.
E pozze d'acqua
viva,
occhio del Dio che vede.
Pozze d'acqua insperate in luogo di arsure. Pozze a forma
intrigante di occhio. Come nel racconto di Agar, la schiava,
e del suo figlio, cacciati da Abramo. Il cespuglio, dimora
del grido sconsolato di un figlio, destinato a sete di morte
e il miracolo dell'occhio di acqua sulla strada di Shur,
occhio di Dio che vede. Anche un piccolo vede. Smarrito,
in pianto, nel-l'immensità di un deserto.
E il racconto scava nel nostro desiderio, nella nostra insonne
ricerca di una sorgente. Anelito di vedere colui che da
sempre ci vede.
Acqua e roccia. Acqua da roccia durissima. Dalla roccia,
immagine della fortezza, ma anche della bellezza. Rocce
istoriate mirabilmente dalle sabbie di vento del deserto.
Fortezza e bellezza, quasi un nome per Dio.
Nel sole abbagliante del deserto sostiamo alla roccia inumidita.
Tocchiamo memorie dei padri. Di Mosè che percosse
la roccia e fu acqua per la sua gente.
E poi si riparte. Fatti ancora più piccoli dall'immensità
del deserto in cerca di altre sorgenti, della sorgente da
roccia durissima.
E ancora sorgenti d'acqua all'oasi di En Ghedi, terra degli
innamorati del Cantico dei cantici. Nel sole che stordisce,
al riparo di alberi dai rami prosciugati, ascoltiamo la
lectio di Antonella, il racconto di un Dio che prepara il
giardino, lo prepara per millenni e millenni, in attesa
della venuta dell'uomo e della donna. En Ghedi, il paese
del Cantico, incanto di cerbiatti, di cervi e di stambecchi,
stordimento di profumi, gorgogliare di acque. Saliamo, resistendo
alla calura e alla fatica, fino all'abbracciarsi delle tre
sorgenti, quella della donna del cantico, quella del capretto,
quella di Davide. Qui Davide, colto da tenerezza, non osò
alzare la mano su colui che lo ricercava a morte, su Saul
inerme nel sonno. Nel luogo delle parole d'amore, si fa
sorgente la parola che alla violenza non risponde con la
violenza. Quasi preludio all'acqua nuova di colui che crocifisso
dirà parole nuove, parole di perdono che faranno
fiorire il deserto. Perché Dio non ha creato per
noi umani il deserto, ma il giardino. I deserti portano
il nome dell'insipienza degli umani. Anche quelli che le
nostre scelte stanno preparando alle generazioni future.
E come non sognare oggi dentro i deserti della storia l'attesa
di un'acqua che muti il deserto in giardino?
E saliamo a Gerusalemme con i salmi dei pellegrini in gola.
Saliamo, ancora una volta alla ricerca dell'acqua, della
sorgente di Dio che da sempre ci vede. La sorgente dell'acqua
viva, sgorgata dalla trafittura del costato di un Figlio
morto di croce. Per amore. Lui, ancora una volta, nascosto
nel piccolo, nell'umile, nel basso, sprofondato in un morire
da schiavo, da malfattore, nella compagnia disonorata dei
ladri.
Celebriamo l'Eucaristia poco lontano dalla stanza al piano
superiore, quella del Cenacolo, un'eucaristia che sembra
odorare del profumo dell'ultima cena, del sacramento del
pane spezzato e del sacramento della lavanda dei piedi.
Celebriamo con stupore l'ultimo, estremo abbassamento di
Dio. Lontana dalle celebrazioni enfatiche, qui l'eucaristia
sembra riprendere il suo volto, un volto perduto. Ridiventa
racconto dell'umiltà di Dio, fatto piccolo, piccolo
pezzo di pane, fatto servo, servo, l'ultimo, che lava i
piedi stanchi dei discepoli. Nascondimento ultimo per uomini
e donne ultimi. Forza e speranza degli umili della terra.
Saliamo, ultimi, i gradini che portano al luogo della Croce.
E canta il silenzio della nostra adorazione.
Canta il silenzio, alla roccia del sepolcro. Nonostante
il vociare dissacrante del prete custode della memoria.
Te ne stai in un angolo ad adorare. Te ne stai solo alla
roccia, alla roccia che disseta, roccia dell'ultimo miracolo,
l'ultimo segno. "Questa generazione" è
scritto "cerca un segno. Non le sarà dato altro
segno". La roccia si è aperta, la tomba è
vuota. Lui è il vivente.
Siamo saliti a Gerusalemme per vedere. Come l'innamorato
del Cantico a spiare dalle inferriate un volto, quello di
Dio. La storia dei Padri e, dentro la loro, la storia di
Gesù hanno aperto uno squarcio nel velo, uno squarcio
di svelamento. Abbiamo spiato dalle inferriate. Così
come uno "spiare dalle inferriate" ci appare l'insistito
indugiare degli ebrei lungo la spianata del tempio al muro
della preghiera. Perché il volto di Dio non è
nell'ovvietà delle nostre definizioni. E' carico
delle nostre angosce e delle nostre domande.
Contempliamo da lontano l'indugiare al muro della preghiera,
mentre centinaia e centinaia di ragazzi soldato salgono
dai gradini accanto, belli come i loro anni. Dai loro zaini
pesanti sbucano, a minaccia, sagome di mitragliatrici, ancora
più pesanti. Uno di loro incrocia i nostri occhi.
Ci dice: "Shalom". Dov'è il volto di Dio?
E noi a spiarlo dalle inferriate. Dalle inferriate di una
croce e di una tomba vuota.
Una voce nel giardino, fuori dalla tomba vuota, voce che
ha timbro di angelo, dice alle donne del desiderio: "Andate
a dire ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede
in Galilea, là voi lo vedrete, come vi ha detto"
(Mc 16,7).
E noi andiamo in Galilea. Il paesaggio qui perde ogni durezza,
si colora di tenerezza. Ora ti sembra di capire perché
Gesù fosse un poeta: colli, boschi, lago.
Nazaret e i resti di una casa antica, casa di povere cose,
che resiste alla sontuosità estrema del santuario.
Ad accomunare casa e santuario è forse solo quest'ombra
intrisa di preghiera.
E poi Cafarnao, città del convenire, città
del mercato, scelta da Gesù come base di una missione
universale, che aveva colori diversi da quelli rincorsi
dalla sua gente, gente in sogno di miracoli.
E il lago, fascino struggente del lago di Genesaret, luogo
dell'appuntamento: "andate in Galilea, là mi
vedrete".
Dove trovare il Vivente? Dove trovarlo oggi? È sulla
riva del lago. Il lago delle nostre fatiche, delle nostre
barche vuote. E lui che invita a gettare ancora le reti.
Non dobbiamo arrenderci. Purché la direzione sia
nella scia della sua parola.
E - vangelo di Giovanni - lo troveremo a riva. Vedremo un
fuoco di brace con del pesce sopra e del pane.. Sarà
il segno che lui è con noi. Segno umile. Per occhi
che spiano Dio dalle inferriate.
don
Angelo
|