articoli di d. Angelo


 

SCAVATO DA CHI? SCAVATO DA CHE COSA?


La sua visita fu improvvisa. Nei giorni assetati dell'estate, quando gli occhi puntano allucinati lontano. A sognare folate o almeno un brivido di vento. Stagione in cui si spopola la città, ma non l'agenda.
La sua visita cadde in una giornata di fine giugno in cui sull'agenda alle diciannove ti eri segnato un appuntamento, alle venti un altro, alle ventuno un altro ancora. Tre coppie in vista di matrimonio, tre storie fuori dal comune. Forse ogni storia è fuori dal comune, se hai l'attesa di ascoltare. E tu chiamato ad essere compagno di viaggio.
La sua visita, quella di Padre Clovis, per via forse dell'esodo già iniziato, vide dunque radunato un piccolo resto. Ad ascoltare. Quando mi riuscì alla fine di salire alla sala riunioni, mancavano pochi minuti alle ventitre. Mi sarebbe bastato anche poco, mi dissi.
Ci sono incontri che durano ore e non dicono nulla, e più durano più sono l'anticamera del nulla, sono il paese dell'ovvietà. Ancora, dopo giorni, misuri l'insofferenza negli occhi. Al contrario, ci sono incontri che vivono uno spazio breve, ma sono incandescenti.
Padre Clovis Souza Santos a Salvador di Bahia è parroco in una delle situazioni più difficili della grande capitale del Nordeste brasiliano, quella chiamata degli "alagados", perché una parte delle abitazioni, o meglio baracche, è costruita sulle palafitte della baia, appena a nord della città.
La sua voce nella calda sera di giugno era appena percettibile, quasi fosse prosciugata dalla stanchezza, forse anche dalla stanchezza di rincorrere una lingua altra.
Gran parte dell'incontro se n'era andato. Ma restava intatto il fascino incancellabile di un testimone. La sua figura secca, anche quella prosciugata come la voce. Anche il volto, ne vedevo di striscio il profilo, smagrito, pelle scura. Bruciato dal sole, mi chiedevo, o dai drammi della sua gente? E gli occhi, i suoi, di quelli che ti bucano l'anima. La sua figura immagine simbolo della sua gente. Forse mi sarebbe bastata. Anche senza parole.
Ma poi nascono le domande. Il più delle volte nascono da un bisogno di capire e di condividere. Così avviene, quasi sempre, come per un costume cui ci si è educati, fra di noi.
Non so se fu per questo atteggiamento di "silenzio" che ci accomuna, per questo rifuggire dall'aria di chi vuole insegnare anche ai testimoni, non so se fu per questo o anche per altro, so che sentii crescere in me, dietro alcune domande della sera, come un senso di fastidio, di forte disagio, forse di insofferenza, come se qualcuno volesse insegnare o pretendesse spiegazioni, se non scuse, dai popoli della fame.
"Noi" disse qualcuno, e la sensazione era che appartenesse a un altro paese dello spirito, "noi soldi non ne abbiamo. Possediamo invece alte professionalità, che potremmo mettere al servizio dei paesi in via di sviluppo. E ci viene risposto: dateci i soldi".
Sarà per via della mia sensibilità sbagliata simile a un nervo scoperto, sta il fatto che quelle parole mi sembravano piovere dall'alto. Le giudicavo, al di là delle intenzioni, pesanti e gli occhi correvano a misurarne i riverberi sul volto, se fosse stato possibile nel cuore, di Padre Clovis.
"Noi abbiamo alte professionalità. Potremmo, che so io, venirvi ad impiantare l'attrezzatura di un panificio, ora in disuso qui da noi. Calcolarvi da qui costi e ricavi…".
Inseguivo gli occhi di Padre Clovis, misuravo nella mente le assi delle sue palafitte, la convivenza quotidiana del popolo delle palafitte con un'acqua di colore ben diverso da quello delle nostre piscine. E nella mente mi ritornavano a ondate, ondate di disagio, le parole. Insistenti anche dopo l'incontro, quasi volessero respingere il sonno della notte. "Noi i soldi non li abbiamo". Mi sembravano parole di dissacrazione, dissacrazione della dignità dei poveri. Dissacrazione della verità. Che si potesse dire di noi, lì riuniti: "soldi non ne abbiamo" e che lo potessimo impunemente dire, in faccia ai 24 mila esseri umani che ogni giorno muoiono di fame! E di questi diciottomila hanno meno di cinque anni.
Dissacrante e inquietante. Come se perdessimo le misure. Come se non ci fosse più un metro di misura. E non sapessimo più dare un nome. Né a noi, né alle cose, tanto meno a Dio,
"Noi i soldi non li abbiamo". Negli occhi avevo ancora quattro strette colonne di un articolo di cronaca di qualche settimana prima, apparso nelle pagine milanesi di "Repubblica" e il titolo: "L'albergo dell'ex Convento ha le piastrelle di oro zecchino". C'era stato il giorno prima, il 18 maggio, il "battesimo" (sic!) di un nuovo albergo a Milano.
E la cronaca registrava: "Il fascino del vero lusso. In pieno centro a ridosso dell'orto botanico di Brera, in fondo a una stradina privata (via Fratelli Gabba) ha aperto i battenti l'hotel griffato Bulgari. Il battesimo è avvenuto ieri. Oggi dalle 8 del mattino fino a notte, questo palazzo storico si mostra ai milanesi quale fosse un museo d'arte contemporanea. L'albergo ricavato da un ex convento di suore è destinato a diventare un rifugio dorato per i turisti danarosi (il prezzo minimo di una stanza è di 570 euro, ma per una suite si arriva a 3.500 euro a notte), porta la firma di Antonio Citterio, uno degli architetti milanesi più famosi a livello internazionale. Il tour inizia nei sotterranei, che ospitano la piscina della beauty farm con piastrelline in oro zecchino. Al piano terra il bar-ristorante ha uno strepitoso bancone ovale in cristallo, poi tutto il resto è occupato da 52 stanze, con bagni curatissimi e vasche hollywoodiane (…). "Questa è una nicchia di mercato che non risente della crisi", spiega il presidente Paolo Bulgari che ha fatto gli onori di casa insieme a Francesco Trapani, l'amministratore delegato".
Mi perdo a contemplare il viso scavato di Padre Clovis. Scavato da chi? Scavato da che cosa? Leggo cronache di giornale. Ascolto i discorsi della sala: "Noi soldi non ne abbiamo" e misuro l'assurdità, il non luogo del vangelo. Come se fossimo fuori dal territorio del vangelo. Nonostante le nostre declamate, esibite radici cristiane. Dai frutti, è scritto, non dalle radici, li riconoscerete. Altro criterio, criterio di vangelo.
Annaspiamo in un mare di assurdità e di contraddizioni. A rischio di non senso. A rischio di schizofrenia.
Succede, a qualcuno di noi è successo anche in questi giorni, leggendo il vangelo, di indignarci con i Geraseni per la loro meschinità e per la loro durezza di cuore.
Gesù era sbarcato, dopo una notte di vento e di tempesta sul lago, nel loro territorio. Come era sceso dalla barca gli era venuto incontro un uomo posseduto da un demone, gridava sui monti e tra i sepolcri, si percuoteva con pietre. Gesù ordinò che lo spirito uscisse da quell'uomo. C'era sul monte una mandria di porci e gli spiriti lo scongiurarono che, uscendo, li mandasse nella mandria di porci. Ci andarono e la mandria precipitò nel mare. Quando la notizia del fatto giunse in città, i Geraseni uscirono incontro a lui e lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.
Che un uomo, uno di loro fosse stato restituito alla sua dignità, la dignità d'uomo, poco importava. A loro importava dei porci.
Leggiamo il vangelo, ci indigniamo con i Geraseni, ma finisce che nella vita anche per noi gli interessi contino più della dignità, non dico di un uomo, ma di milioni di uomini.
Mi perdo a contemplare il viso scavato di Padre Clovis. Scavato da chi? Scavato da che cosa? Ascolto i discorsi della sala riunioni. E nel cuore mi battono, come campane a martello, a segnale di rischio e di esiti di morte, le parole di un papa, Paolo VI nell'enciclica "Populorum progressio":
"Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nell'ignoranza, quando restano da costruire tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi" (PP 26).
E ammoniva. "Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri con conseguenze imprevedibili" (PP 49).
Grido di una sentinella nella notte della storia. Grido in larga parte inascoltato. Evocava i giorni della collera dei poveri.
Il rapporto FAO '03 parla di 842 milioni di persone alla fame, 27 milioni in più di due anni fa.
A volte mi fermo ad immaginare gli occhi degli 842 milioni. Leggo le cifre nell'angolo più sperduto dei quotidiani, vedo scorrere le immagini della povertà sullo schermo, vietate prima di mezzanotte. In primo piano, in prima serata c'è altro, c'è la villa, c'è l'albergo, celebrati per filo e per segno. C'è l'ostentazione, l'esibizione. Paolo VI si chiedeva quali potessero essere i sentimenti dei poveri di fronte allo spettacolo. Rispondeva: la collera.
Non dovremmo trovare modelli di vita alternativi? A partire anche dalla nostra fede. Dalle radici. Se ci sono. E riscoprire parole fuori moda, come la parola sobrietà. E riprendere il viaggio dietro le parole sacre. Qualcuna, lo ammetto, risente del tempo e provi un sussulto quando la ritrovi nel salmo: "Sono stato fanciullo e ora sono vecchio: non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane" (Sal 37, 25).
Contemplo il viso scavato di Padre Clovis. Scavato da chi? Scavato da che cosa?
Rimane luminosa, non usurata dal tempo, la preghiera del "Padre nostro", che è invito a implorare un pane al plurale. Non il mio pane. Né il tuo. Il nostro, il pane di tutti. E non l'accumulo. Quello che serve per questo giorno, il pane quotidiano.
E, come giungo all'invocazione: "dacci oggi il nostro pane quotidiano", da qualche tempo a questa parte mi sembra di cogliere nell'aria una voce. È chiara. So anche da dove viene. È la sua. Inconfondibile. Quella che risuonò un giorno nel deserto davanti ai cinquemila. La voce dice: "Date loro voi stessi da mangiare".
La odo anche questa sera, mentre gli occhi contemplano il viso scavato di Padre Clovis. Scavato da chi? Scavato da che cosa?

don Angelo


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